I post della categoria CARTA (settimanale per cui ho scritto per anni) pubblicati nel vecchio blog.
CESARE BASILE // “STORIA DI CAINO” – Urtovox rec
E’ ormai riduttivo presentare ogni nuovo disco di Cesare Basile sottolineando che si tratta di un’autore della “nuova” scena cantautorale italiana. La scena non è più nuova, anzi è ormai matura e questo Storia di Caino non fa altro che confermare la qualità dei precedenti dischi da solista (in passato, ad esempio, con i Quartered Shadows nella Berlino appena post muro) di Cesare che stanno sempre in bilico tra rock e canzone d’autore sbilanciandosi a seconda delle situazioni e del tempo. Qui, appunto, continua su questi passi, poco sicuri e ondeggianti, tingendo i suoi suoni, spesso cupi spesso elettronici, di tonalità carnali calde, di disperazioni composte, di imprecazioni e di denti stretti, di ritmiche pronunciate, un po’ blues, un po’ folk, un po’ rock. Di testi che raccontano storie un po’ personali un po’ colletive.
Come in Hellequien Song la produzione è affidata a John Parish, che in passato ha collaborato, ad esempio, con PjHarvey. Inoltre, sempre folta la lista degli amici musicisti presenti. Citiamo per tutti Robert Fisher dei Willard Grant Conspiracy che interpreta l’unica traccia in inglese “What Else Have I To Spur Me Into Love?”. Senza entrare troppo nel merito, perché spiegare le canzoni a volte vuol dire impoverirle, traccia dopo traccia si ha la sensazione di un lavoro in cui le varie parti musicali si equilibrino a vicenda restituendo tutta l’energia sprigionata in fase di creazione e produzione. Un disco, l’ha definito l’autore senza volerne spiegare il perché, “sull’assenza”. Un disco che invece riempe, ascolto dopo ascolto, durante le 12 tracce e lascia quel retrogusto amaro, quel sapore del non scontato, che fa la differenza.
Madox / Urban Plastic [Mantra]
Per fortuna non esportiamo solo la sestina Ferro-Ramazzotti-Pausini-Nek-Zucchero-Bocelli. Madox è un glorioso esempio. E’ napoletano e si chiama Stefano Miele. Sono anni che incide ep che suona e vengono suonati nei club di mezza Europa e di mezzo mondo. Ora, finalmente, fa uscire il primo disco. Tredici tracce che prendono il nome di Urban Plastic. La produzione è anch’essa italianissima: la bolognese Mantra che è apprezzata più fuori dallo stivale che al suo interno. Il suono di Madox è ruvido e potente. Il genere è quello che tra gli addetti ai lavori è chiamato Breaks (o Breakbeat), che è figlio della drum’n’bass per intenderci, ma che suona più fresco, meno cupo per alcuni aspetti. Madox però è un contaminatore e infatti spuntano mc brasiliani (Cabal e DG in El Magnifico) o ritmi samba come in Cabaleira. E un contaminatore perché in ogni traccia c’è qualcosa che la rende unica e non scontata: l’andamento è orientato al dancefloor, però la cura sta nei dettagli, nei bassi gonfiati a dovere, nelle ritmiche che ti travolgono. In più è molto molto apprezzato da gente di un certo spessore come Ronnie Pilgrem e Plump Dj’s (di cui abbiamo più volte parlato in questi anni): l’italian touch si fa strada…
Il mito di Bob Marley è vivo e vegeto e ad alimentarlo ci sono delle produzioni tanto valide quanto interessanti. Ad esempio questo “ Bob Marley and the Wailers. Roots, Rock, Remixed”. 12 tracce di Marley, nemmeno le più famose, dove ci hanno messo su le mani alcuni nomi noti e altri meno noti. Ad esempio: Fort Knox Five, Trio Elétrico (ovvero Boouzo Bajou, ndr), Dj Spooky. Ma al di là di chi ha “remixato” cosa è il complesso a soddisfare. Un suono che esce rivalutato, che non viene però stravolto, non intaccato nei sui punti vitali, ma piuttosto “vitaminizzato”, con piccoli innesti che aiutano ad apprezzare, che fanno vedere l’origine della canzone mutandone l’orizzonte. Una chiave di lettura di matrice più “elettronica” figlia dei giorni nostri, che non guasta e aiuta a ri-assaporare cose passate, come appunto le produzioni di Marley e soci. E se è vero che spesso e volentieri gli originali sono meglio dei “remix” è altrettanto vero che certe volte il rimettere mano a successi e o a brani con un forte DNA può giovare e far apprezzare ancor più una canzone, un disco. Accade per One Love, la più famosa tra quelle in lista. In chiusura del disco, come “bonus track”.
Loro si chiamano Amor Fou e da qualche settimana il loro disco è in giro. Anche loro sono in giro per un tour di presentazione del loro primo disco. Gli Amour Fou sono una “neonata” band, composta da musicisti con un passato alle spalle. Cesare Malfatti è la metà dei La Crus e dei The Dining Rooms. Leziero Rescigno e Luca Saporiti hanno svariate collaborazioni tra l’Italia e l’estero. Alessandro Raina, con cui facciamo questa chiaccherata, è stato per un po’ la voce dei Giardini di Mirò, oltre ad aver inciso due dischi come solista. Il disco scivola lungo canzoni “cantautorali”, dove però nulla è nostalgico e il “moderno” serpeggia, fortunatamente.
Nella nota alla stampa si legge che Amor Fou “nasce a Milano nel 2005 dall’incontro fra…” Però la versione che vi siete incontrati per caso, non regge.
“Non ci siamo incontrati per caso. Io e Cesare ci siamo conosciuti ufficialmente nel 2004 a Urbino, nell’ambito del festival Frequenze Disturbate. Dei La Crus possedevo quasi tutti i dischi e lui apprezzava il mio lavoro nei Giardini di Mirò. Vivere a Milano nella stessa zona facilitò una frequentazione che, nel giro di due anni, ha coinvolto nel progetto anche Lagash e Leziero Rescigno, in un’entità che avrebbe preso il nome di Amor Fou. Casuale, al 100%, è stato invece il nostro incontro con Adele e Paolo, i personaggi che che mi hanno ispirato la storia che aleggia nei meandri de ‘La stagione del cannibale’.
Come mai ci avete messo 2 anni a far uscire il primo disco? Ha avuto una gestazione travagliata? Siete partiti dalla musica o dal testo?
“Le difficoltà riesiedono principalmente nel differente approccio che ognuno di noi ha verso la musica e piu’ in generale verso l’arte. C’è chi fra noi è piu’ confusionario, chi vive momenti periodici di grande rallentamento, chi sfornerebbe dieci idee alla settimana. Dalla media di tante sensibilità è emerso un disco. Non è stato assolutamente facile. All’inizio siamo partiti dalla musica, ma piu’ di metà dei brani è stata composta da me e da Leziero in modo molto tradizionale, secondo i dettami della scuola cantautorale piu’ tradizionale, seduti attorno a un tavolo, con le chitarre, un foglio, una penna e il caffè perennemente sul fuoco, ovviamente preparato alla maniera del grande Eduardo De Filippo”
E’ possibile parlare di un concept album per La stagione del Cannibale? E poi, sotto “l’amore” c’è anche qualcosa di più “politico” nella storia che raccontate: qual è il pezzo più politico dell’album e quale, di contro quello più intimo, personale.
“I concept rispecchiavano un approccio alla musica pop molto nobile e complesso. In questo tuttora i concept album appaiono figli legittimi dell’epoca in cui vennero pensati. In una società povera di concetti ‘forti’ (o per meglio dire di un pensiero forte) i concept sono passati di moda, in favore dei dischi infarciti di singoli, dei riempipista e delle suonerie per cellulari. Molto umilmente ci siamo rifatti alla dimensione dei dischi di Lucio Battisti che amiamo di piu’, come come ‘Il nostro caro angelo’ o ‘Anima latina’ che pur vivendo di canzoni stupende, ‘a sè stanti’, racchiudevano un’idea, un filo rosso che percorreva tutto l’LP, in modo assolutamente naturale, facile da cogliere ma mai banale.
Il nostro è un disco forse piu’ ‘etico’, direi ‘neo-moralista’, che non ‘politico’. E’ nato sulla base di un amore per la musica e per una tradizione culturale che sentiamo nostra, ancor piu’ nostra di fronte al suo oblio. C’è un’etica di fondo che ci porta ad amare la musica a prescindere dai mille abusi che se ne fanno oggi, un amore che dedichiamo anche al cinema e ai libri, agli autori che ci hanno spinto a mettere in gioco la nostra vita per provare a fare gli artisti. La canzone piu’ intima è anche quella piu’ politica perchè il disco parla di un’illusione personale (quella di due innamorati) che a un certo punto coincide con l’illusione di un paese che si risveglia incancrenito e preso d’assalto da un grande malessere (l’Italia di fine anni ’60). Dovessi citarne una direi ‘L’anno luce’ e ‘La strage’ che ne è il completamento.
Come mai tra gli autori delle canzoni risultano solo “a.raina, l.rescigno” tranne che ne Il periodo ipotetico dove tutti e quattro figurate come autori. E’ stato un lavoro a due o di gruppo?
Sbaglia chi pensa che, riguardo alla scrittura, il disco di un gruppo sia sempre il prodotto di uno sforzo multilaterale. Non accade mai, che io sappia. Ognuno porta il proprio contributo in via differente, perché fare un disco non è solo scrivere e registrare canzoni, ma anche tanto lavoro di organizzazione di risorse e spazi.
Leziero ed io, in un momento di grande impasse per la band e per i suoi singoli componenti abbiamo, trovato nel nostro connubio musicale tanti argomenti che per un anno ci erano sfuggiti e in poche settimane abbiamo scritto quasi tutto il disco, scelto il titolo e dato un senso a tutta la mole di suggestioni che avevamo assorbito nei mesi precedenti. In questo non c’è stato alcun gesto di esclusione, ognuno ha avuto modo di contribuire spontaneamente al disco in vari modi e in diversa misura.
Carta – Dicembre 2007
Con “Note book, A journey in Sound”, Gherardo Frisina mette un altro tessello al suo mosaico musicale. Giunto al suo quarto disco ci propone 12 tracce, di cui 3 mai pubblicate prima: Tokio’s Dream, Calle de Candela, Es Differente. Le altre sono suoi remix celebri che anno contribuito, negli anni, a renderlo conosciuto in Italia e all’estero. Il “sound” è legato al jazz e ai suoni che lo hanno contaminato rinfrescandolo negli ultimi decenni con tinte meno nette e più meticce, con attitudini più “dance” rispetto alla tradizione. [www.ishtar.it]
Nella raccolta “Jamaica Funk” si sente forte l’odore dei vinili e del sudore della pelle, spesso nera, che in Jamaica, negli anni ’70 (dal 1972 al 1978) ha segnato un epoca. La Soul Jazz Records ha fatto un’operazione “filologica” infilando dentro delle uscite di 45 giri registrate negli anni citati: tanto funk e soul e lo spirito del reggae che aleggia ovunque. Un risultato interessante che testimonia come nel passato, spesso e volentieri, l’originalità sia di casa. E oggi, purtroppo, è un guardarsi indietro. Spesso e volentieri. [www.souljazzrecords.co.uk]
Con “14-19”, invece, cambiamo completamente palcoscenico. E’ l’ep che segna il ritorno di Paolo Benvegnù. E’ l’attesa del suo nuovo disco che ci viene ammorbidita con queste 5 tracce sempre in bilico tra varie definizioni, “rock”, “cantautorato”, “poesia” e che invece trovano ottima posizione più su uno stereo che su un giornale. Come detto, aspettiamo l’album per il giudizio definitivo. Intanto ci gustiamo queste… [www.paolobenvegnu.org]
Carta – Dicembre 2007
Suonano tirati i sassuolesi Les Fauves con N.A.L.T-1 A Fast Introduction. Infilano dentro un batteria dritta in verticale, con linee di basso ruvide e voce acida. Si fanno apprezzare perché si sente che sono giovani (22 l’età media), ma che non sono i primi arrivati.
Una attitudine spiccatamente “garage-rock-punk-indi”, che non vuol dire nulla, probabilmente, se ci fermiamo alle etichette, ma che spiega a parole come il loro suono sia duro e puro, morbido e corrotto, dance&rock, ironico e irriverente. Suonano nel lettore, ma sembra siano dal vivo in una delle tante date in giro per l’Europa.
Quel puzzo di concerto se lo portano dietro traccia dopo traccia, nelle ritmiche, nei ghirigori del basso: fava go go dance, twister twister, no spaghindie per voler iniziare. Camaleontici: sono passati indifferentemente dal palco del Fib in Spagna a quello della mostra del cinema di Venezia, perché una loro traccia fa parte della colonna sonora di “Non pensarci” con Valerio Mastrandrea.
E, forse, la chiave di lettura sta tutta lì, nella loro voglia di non voler stare solo da una parte. Così, ad esempio, hanno collaborato in una traccia, “Silente Suv”, di Some Other Country, lavoro del duo londinese tecno-dub Swayzak. Dei menestrelli punk, che dissacrano a partire dal suono.
E questo è solo il loro primo album, preceduto solo da un EP che già aveva riscosso il favore del pubblico.
Disco della settimana. Carta 20/10/2007
Cose strane questa settimana e diverse tra loro. Per iniziare di gusto: Structure and Cosmetic dei The Brunettes, al secolo Heater Mansfield e Jhonatan Bree. Catalogati alla voce “vintage-pop”, i due presentano un album strepitoso, ricco di cosmetici sonori: rossetti, obretti, lucida labbra e tanto smalto per le unghie. Un po’ glam certo, molto pop con coretto, ironia, ma anche ballate lente. Voci, comunque, suadenti e ammiccanti. La prima traccia è il loro manifesto: “Brunettes against bubblegum youth”.
Altro capitolo strano è Discovered a ollection of daft funk samples ovvero 12 tracce che hanno fatto ballare, che hanno influenzato, che hanno coinvolto i Daft Punk. 12 spunti assolutamente funk senza tanti fronzoli: viene voglia di cotonarsi i capelli e comprare un jeans a zampa.
Con Dust Galaxy, Rob Gaza, metà dei Thievery Corporation, realizza il suo prima solista. Qui prendono spazio e si dilatano suoni psichedelici sostenuti da ritmiche di matrice rock con innesti elettronici. Ambientazioni orientali e talvolta misticheggianti. Il progetto si avvale di tante collaborazioni tra cui: Shawn Lee, Martin Duffy & Darrin Mooney (Primal Scream), Adam Blake (Cornershop) e alla chitarra, Jerry Busher (Fugazi, French Toast)
L’indie-rock dei Blitzen Trapper invece convince perché non puro. Si scontra con qualche perdita d’identità salutare per cui ritroviamo qualche pesantezza e leggerezza inaspettata. Qualche assolo stile haevy, o qualche propensione al motivetto che non guasta affatto. Wild Mountain Nation scorre dritto dritto senza sosta lungo tutte le tredici tracce. Registrato da loro stessi con l’unico ausilio di un “processo segreto imparato da amichevoli extraterrestri”, dicono. Bravi!
Che stravagante compilation questa presentata da Jamie Cullum. Fa parte della serie In the mind of della District6. In questo caso, appunto, nella mente di Jamie Cullum, nome nuovo della scena pop jazz internazionale che ha venduto un bel po’ di dischi negli ultimi anni. Dunque, nei gironi della sua mente si parte da Nina Simone (I Think it’s gonna rain today) con voce e piano: struggente. Poi si continua sulla falsa riga del jazz fino ad arrivare alla prima traccia inedita di Cullum: un misto di jazz e pop con un buon “mood”. Alla traccia 5 il colpo di scena: Laurent Garnier con una cassa dritta acida. Alla 6 Quasimoto con jazz e hip hop oggi sposi: un matrimonio riuscitissimo. Si va avanti con Charles Minugs, poi ancora Cullum con un altro inedito, con Herbie Hancock, la Cinematic Orchestra, Roni Size. In definita una gran bella e coraggiosa selezione, che incuriosisce perché non banale.
Italiani invece sono gli Annie Hall che con Cloud Cuckoo Land percorrono strade non nuove, ma lo fanno a modo e con decoro. Il tragitto è quello delle “folkstories”, delle chitarre acustiche, del glockenspieal, della farfisa, del piano rodhes. Poca inventiva, tanto cuore. Risultato apprezzabile.
Lavoro duro da digerire quello dei Einstürzende Neubauten. ALLES WIEDER OFFEN è un incontro del rock scuro verso la poesia e il teatro, verso rumori elettronici, guardando al cinema. Occorre dirlo, se sfuggisse: leader è Blixa Bargeld dei Bad Seeds, compagni di ventura di Nick Cave.
Iron&Wine il nome dietro cui sta Samuel Beam. The Sheperd’s Dog è il nome del suo secondo disco. Canzoni molto timide, delicate, che nascondendosi mettono a nudo, che scappando ti vengono incontro. Fatto di chitarre, violini, arpeggi…
Carta
Brazilectro, latin flavoured clubes tunes, session 9 è il nuovo capitolo di questa fortunata compilation che anno dopo anno rinfresca le nostre casse con brani originali e remix che hanno come protagonista, nelle sue svariate sfaccettature, il Brasile e il suo suono. In realtà, appunto, trattasi di suoni, poiché se il brand-sonoro è inconfondibile, è di sfumature che si caratterizza questo lavoro. Non solo autori brasiliani (Marcos Valle, Celso Fonseca ad esempio), ma anche tanti europei catturati dal fascino verde oro (i tedeschi Mo’Horizons o gli italiani The Dining Rooms). Come prassi, due i cd per un totale di 26 tracce. La divisione, classica, è in “comoda” e “dança”. Il resto è sostanza e forma, è fascino e stupore, è il lento agire della bossa nova, o il più veloce della samba come nel caso dei Sambasonic in Ponta de Lanca Africano. Il Brazil-style se in alcuni casi è inflazionato qui riesce a rinnovarsi mantenendo intatte le sue radici, come in un esercizio di stile innestato con fantasia e inventiva. Con l’attitudine e il buon gusto. L’omogeneità la si raggiunge, traccia dopo traccia in maniera paradossale, proprio con la diversità degli attori in campo, con il contributo di ognuno, con le buone scelte, bisogna dirlo, fatte da Ralf Zitzmann che ha selezionato preziosamente le tracce. Ovviamente, agli oppositori del genere sconsigliamo vivamente l’ascolto.
Carta
Cosa accade quando “il post punk incontra la pop culture”? Una risposta la da questa compilation, AAVV/New wave, when post punk met pop culture, compilata dai due Nouvelle Vague, Marc Collin e Gilles Leguen. Sono due dischi strepitosi, tutte cover fatte da protagonisti della newwave anni ’80. Per capirci: Devo che rifanno I can’t get no satisfaction, o Wating fot the man rifatta dalla Orchestral Manoeuvres. Il resto va scoperto, perché merita tanto e soprattutto renderà pace all’eterna lotta tra il “post punk” e la “pop culture”. www.district6.co.uk
Sempre per restare in tema di compilation, quella fatta dagli inglesi Hot Chip per la serie Dj Kiks non delude i fans del gruppo né quelli, appunto, della Dj Kiks. Dentro suona un frullato vitaminico di hip-hop, drum’n’bass, jazz, techno e tanti brani di autori interessanti.
Gli inglesi Stateless pubblicano il loro primo album omonimo con la !K7 di Berlino e unisco la melodia all’elettronica spennellandola di rock e pop. Il gusto è davvero sorprendente anche grazie alla voce del cantante Chris James che, notato da Dj Shadow, è stato “utilizzato” per alcuni suoi brani e per aprire la sua turnè insieme alla sua band. Qualcosa di nuovo, ogni tanto, fa proprio bene. www.myspace.com/stateless
Chiudiamo con un qualcosa di nostrano: i campani …A Toys Orchestra hanno pubblicato qualche mese fa il loro Thecnicolor Dream, dimostrano come stanno crescendo molto bene guardandosi indietro con atmosfere di rock onirico, con riferimenti psichedelici piacevolissimi da ascoltare e non solo. Continuano ad usare l’inglese con ottimi risultati, e la produzione di Dustin O’Halloran dei Devics da un buon contributo.
www.myspace.com/atoysorchestra
Carta